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Con Jvan Sica, autore di “Napoli scudetto”. Il racconto” abbiamo parlato del racconto dello sport, soprattutto del calcio, partendo da una sua frase.
“Quando un evento sportivo accade è cronaca, dopo diventa un racconto”: lo hai detto nell’episodio di “Tapparelle” dedicato al tuo “Napoli scudetto. Il racconto”. Dimmi di più: cosa intendi?
L’evento sportivo è una sorta di piatto da tavola calda: dentro c’è già tutto, come quei vassoi in cui ti mettono già primo, secondo e frutta. Anche nell’evento sportivo c’è tutto: c’è l’eroe, l’antieroe, il punto in cui devi arrivare, ci sono gli ostacoli.
E in tutti gli eventi sportivi questa struttura si ripete, per questo mentre lo vedi accadere è cronaca, perché rifletti sul gesto, sulla performance, sulla tua performance – della persona o della squadra che tifi – in relazione a quella dell’avversario, ma passa pochissimo tempo affinché tutto questo diventi una struttura fiabesca. Un tempo così minimo in cui la cronaca diventa, appunto, racconto.
Seguendo la tua metafora come consumi questo “piatto”? Qual è il tuo approccio?
Esistono varie possibilità di approccio a una materia che può essere sia un personaggio sportivo sia, per esempio, la descrizione di un evento. Se vogliamo rendere dicotomico questo “ristorante”, da una parte il menù dice che i primi piatti sono gli eroi, poi ci sono gli eventi.
Per quanto riguarda me sono per la “scuola europea” che tende a esaltare il momento in cui la persona ha compiuto quell’atto come qualcosa di straordinario, di significativo, anche in caso di sconfitta. Definisco questo approccio come “il racconto della carne”, del hic et nunc, collegandolo all’idea che è il corpo che sta facendo qualcosa in quel momento, e quindi alla descrizione di come il corpo sta reagendo alla volontà e alla fantasia di quel protagonista. A differenza dell’approccio americano che parte dall’eroe sportivo e allarga il perimetro del racconto verso tutto il mondo che gli gira attorno, l’atmosfera in cui vive, l’universo in cui ha navigato per tutta la vita, fin dalla nascita, toccando dei punti di relazione sia con la persona stessa sia con il gesto sportivo.
A che punto si trova oggi la letteratura sportiva in Italia?
Ci sono due grandi fonti di ispirazione che stanno lavorando nella letteratura sportiva italiana. Da una parte quella americana, che ho citato anche prima, che è la definizione e la descrizione dell’eroe soprattutto nelle sue debolezze (pensiamo per esempio a “Open” di Agassi): un eroe che compie un lunghissimo viaggio tra cime, vallate e depressioni e, insieme a questo, la descrizione dell’universo che gli gira intorno. Dall’altra parte, invece, c’è il racconto sudamericano che collega l’eroe e il fatto sportivo a dimensioni surreali, a volte laterali rispetto al mondo dello sport. L’italia sta mettendo insieme tutte queste spinte cercando di tirare fuori una sua voce originale. Ci sono tantissimi autori che fanno cose molto diverse e questo secondo me è il “brodo di coltura” in cui può nascere un determinato stile, determinate tendenze, anche se per il momento siamo ancora nella fase iniziale.
Negli anni 20 del 2000 poi è sempre più difficile creare una “scuola”, questo nella letteratura come nel giornalismo, perché tutti quanti hanno una voce fortemente diversa: tutti vogliono sottolineare una visione individuale e personale. L’idea di unirsi sotto un cappello fatto di principi stilistici o di struttura narrativa diventa sempre più complicato, non è più il tempo delle scuole, in nessun ramo, quindi neanche nella letteratura sportiva. Al massimo potrebbero definirsi dei sovra-principi fondamentali.
Il nostro è il tempo dell’individualità; delle costruzioni personali attraverso esperienze individuali. Siamo nel periodo dell’iper-capitalismo e dell’intrattenimento. È vero che tutti si raccontano alcune cose, tipo “Squid Game”: tutti vogliono vedere quella cosa, però poi i percorsi, anche grazie agli algoritmi che li personalizzano, si sfilacciano, vengono fuori strade uniche, percorse solo da una persona.
Come possiamo raccontare lo sport alla GenZ?
Secondo me la grandissima trasformazione con le nuove generazioni, per quanto riguarda il racconto, è che loro fruiscono la narrazione attraverso la vista, quindi la cosa più importante che può fare la parola in questo momento è dare nuovi significati a ciò che si vede, anche al mainstream più totale. La parola può dare un senso diverso: un goal che hai già visto 15mila volte nell’arco di una settimana può essere raccontato in modo diverso. Tant’è che io sono uno dei pochi che pensa ancora che si possa scrivere la cronaca della partita. Molti sostengono che la partita la si vede solo per intero o attraverso gli highlights, e basta questo; è inutile spiegare che uno ha crossato e l’altro ha fatto un colpo di testa e ha segnato. Invece secondo me la parola potrebbe scovare dei sensi nascosti anche quando il tema è sotto gli occhi di tutti.
Parliamo di podcast: cosa ha portato alla tua esperienza di autore?
Come autore di “Napoli scudetto. Il racconto” e “Mundial 82”, amante e fruitore dei podcast ho imparato che ogni espressione artistica riesce a suscitare emozioni in maniera diversa ma la parola parlata arriva dove né la vista dei video né la lettura riescono ad arrivare: è qualcosa che fa la voce, la capacità della voce di essere immersiva come niente altro. La vista ti mette di fronte quello che stai immaginando, la parola scritta te lo descrive, la voce riesce a fare molto di più.
C’è poi una dimensione che chiaramente appartiene alle neuroscienze: chi ascolta i podcast muove il corpo, non è fermo. Questa idea che stai muovendo il corpo mentre stai fruendo di un contenuto culturale porta benessere. Secondo me c’è una connessione tra questi due aspetti ma io mi fermo qui perché ci vorrebbe qualcuno esperto di neuroscienze. È qualcosa che percepisco, ma non so da dove viene.
Sicuramente sta cambiando il modo in cui fruiamo i contenuti e come ci concentriamo. Fino a un anno fa stavamo più attenti fermi di fronte ad un contenuto, oggi è il contrario: ci stiamo spostando in un’altra dimensione in cui più ci muoviamo, più riusciamo a stare attenti. Forse perché siamo immersi in così tanti stimoli che la mente dopo 5 minuti chiede “perché non passi ad altro”?
A proposito di stimoli, quali sono le tue influenze?
Partendo dalla letteratura sportiva, mi piacciono più i contemporanei. Siamo il paese della commemorazione (“Il meglio è stato sempre prima di noi!”), invece, almeno da questo punto di vista, secondo me gli italiani, giovani soprattutto, sono stati i migliori a raccontare lo sport.
E lo dico sapendo che la maggior parte delle persone chiamerebbe in causa i Brera, gli Arpino ecc, ma i giovani sono bravissimi. Anche perché per gli autori del passato c’è tutto un discorso sullo sport che veniva dal fascismo, quindi era una nicchia assolutamente bistrattata da un punto di vista culturale, il Pci considerava lo sport come la grande icona di massa che il fascismo ha voluto imporre, per cui anche gli intellettuali si sono avvicinati pochissimo allo sport. Mentre ora, per fortuna e ovviamente, questa idea è stata abbandonata.
Per quanto riguarda il resto, guardo cose molto diverse, tra i registi che mi piacciono c’è Sorrentino: cerco sempre – nel mio piccolo – di scrivere come se fosse una sua fotografia, fermo la narrazione e la descrivo in una fotografia “in stile Sorrentino” – qualcosa che mi piace sottolineare in quel momento. Poi ci sono molti giornalisti che sanno stare sul fatto ma lo sanno ampliare, come fa Gigi Riva dell’Espresso che ha scritto anche il bellissimo “L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra”. Nella musica invece sono legato a tutti i cantautori, ma soprattutto alla capacità di alcuni di raccontare le realtà, come Gaber, che riesce a restituire un concetto astratto attraverso una descrizione fisica. Sembra assurdo, però, anche nella letteratura sportiva si può, perché ci sono una marea di concetti astratti che nello sport sono fondamentali, già l’idea di attaccare e difendere è un’idea astratta che devi riuscire a spiegare.
C’è bisogno di un racconto che sia meno astratto…
E tutti questi autori, come Gaber o Sorrentino, riescono a spiegare l’astratto attraverso una messa in scena fisica, attraverso le parole o la rappresentazione. Mi piace questa linea di tendenza che mi riporta al “racconto della carne”.
Poi parlando nello specifico dell’Italia, la maggior parte della discussione sportiva si concentra sul calcio, e sempre più di calcio se ne parla guardandolo dalla tribuna stampa, osservando i movimenti dei calciatori come se fossero delle pedine su una dama. Ma non è così. Me ne accorsi quando un giorno andai a vedere Napoli-Barcellona al Maradona e mi capitò, perché lo stadio era pieno, la prima fila “dei distinti”: il campo lo vedevo dal basso, con tutto lo scontro delle carni tra i giocatori, gli sbuffi, il rumore quando cozzavano i muscoli. Ormai questa dimensione è completamente sparita nella riflessione, nella scrittura, mentre se poi vai a vedere lo sport è questo: cercare di fermare qualcuno contrastando con il polpaccio, con il bicipite, perché se questo non avviene puoi fare qualsiasi accorgimento tattico ma, se quello fisicamente ti supera, sei spacciato comunque. Quello che avviene in campo è tutto fuorché astratto.