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Anche meno

Quattro chiacchiere con Marta Mason, ex calciatrice di Serie A e Nazionale e autrice di “Perché sei femmina”, a proposito di parole, esperienze e calcio del futuro (immaginato).

Puoi leggere l’intervista oppure ascoltare la versione audio che trovi qui sotto.

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Anche meno

Se le parole danno forma alla realtà, quali parole aboliresti nel racconto del calcio femminile?


Sai che abolirei proprio “femminile”? Mi piacerebbe, anche se mi rendo conto che è un po’ un’utopia, che non ci fosse bisogno di specificare “femminile” quando si parla di calcio: vorrei che “calcio” (ma vale lo stesso anche per tutti gli altri sport) inglobasse già l’idea che può essere di tutte e tutti, perché è da qui che parte l’inclusione. Altrimenti continua ad essere un’eccezione che le donne possano giocare – e giocano – a calcio.

È un po’ come rendere normale l’omosessualità, non è che lo fai aprendo la porta e dichiarando “Io sono omosessuale!”, perché chi è etero non lo fa, ma è nel renderlo normale ogni giorno e in ogni gesto.


Nel podcast “Perché sei femmina” parlo di questo tema con riferimento allo stereotipo della donna che gioca a calcio: da piccole ci sentiamo “maschiacci” perché l’idea corrente è che se giochi a calcio lo sei, in Italia, mentre in altri paesi è già un concetto superato – è normale che una donna possa giocare a calcio ed essere femminile (o mamma) allo stesso tempo. Oggi, in generale, abbiamo bisogno di specificare tutto, usare aggettivi ed etichette, mentre togliere le parole che dividono forse potrebbe essere il segreto.

 

L’altro giorno – fatalità – ero al parco e stavo giocando a calcio con mio cugino, stavamo facendo due tiri e c’erano parecchie persone. In tanti si sono voltati verso di me semplicemente perché calciavo un pallone: questa cosa mi accadeva quando avevo 5 anni, e succede ancora. È addirittura venuto un ragazzo verso di me e mi ha chiesto “Ma tu giochi a calcio?!” Come se veramente fossi o Beckham o un’aliena. Questo per dire che ancora oggi c’è gente che trova straordinario che una donna possa giocare a calcio.

Togliere l’aggettivo che definisce il genere per me significa includere la possibilità che qualcosa, il calcio in questo caso, sia di tutte le persone. 

 

Con i bambini, quindi con le nuove generazioni, trovi sia diverso? 

 

Pensa che un bambino, quando ha saputo che il papà aveva deciso che sarebbe venuto da me ad allenarsi, come prima cosa ha detto: “Ma papà, è una femmina!” Alla prima lezione l’ho subito individuato ma appena mi ha visto palleggiare, si è ricreduto; non ha avuto bisogno di altre spiegazioni. E poi, avendo a che fare con me, per loro è un insegnamento ulteriore: non hanno un allenatore maschio, ti rispettano per come fai le cose. Con loro so che posso portare una differenza che per altri non è ipotizzabile. Ci sono anche bambini per cui è normale che una donna giochi a calcio, non ci pensano neanche, e penso che sarà sempre più così. 

 

Partendo dal tuo vissuto, cosa ci dice il calcio in questo momento storico a proposito di parità e diritti?

 

Sono sempre un po’ in difficoltà a parlare di questi argomenti, mi sento sempre un po’ piccola. Partendo dalla mia esperienza, come dico nel podcast, penso di essere stata fortunata perché ero forte, se fossi stata più scarsa avrei sentito tantissimo il peso di essere una femmina, di essere “diversa”, di essere giudicata incapace.


Ancora oggi mi chiedono se giocavo a calcio a 11, che significa: “C’è un campo apposta per te che sei donna e giochi a calcio?” Come se servisse un campo più piccolo per le donne…
Ora ho un altro lavoro ma ovunque mi muova è ancora così: è diffusa l’idea che la donna sia dipendente dall’uomo, nella famiglia, nel lavoro… È faticoso far arrivare un messaggio paritario.

 

Secondo uno studio dell’Osservatorio Betway una calciatrice di Serie A guadagna, in media, 15 mila euro lordi all’anno, mentre un uomo in media prende uno stipendio di 500mila euro lordi all’anno…

Anche peggio, se pensi cosa andrà a prendere Neymar dall’Arabia Saudita mentre la Sampdoria non ha iscritto la squadra femminile… Già queste differenze sono abbastanza assurde. In America pochi anni fa c’è stata una protesta proprio sul tema della parità negli stipendi, anche perchè in Usa le donne vincono molto più degli uomini.

 

In generale per me è assurdo che uno sportivo guadagni uno stipendio così alto rispetto a un altro lavoratore che magari si spacca la schiena, non trovo giusta questa disparità in generale. Odio la disparità. Mi fa arrabbiare che ci siano persone che devono sbattersi tantissimo e guadagnare pochissimo, e altre invece… Nel calcio maschile stiamo perdendo il senso della misura, è questo che va rivisto: il problema non è tanto quanto guadagnano le giocatrici in assoluto, il problema vero è quanto guadagna oggi un calciatore maschio. Non possono prendere queste cifre assurde! 

 

Altra grande differenza sta nelle allenatrici, che sono pochissime e non appena una sbaglia qualcosa viene messa al patibolo, oltre al fatto che le ex calciatrici, a differenza dei colleghi, non sono così inserite nel ciclo del nuovo calcio e questo sarebbe fondamentale per lo sviluppo. 

 

Proviamo a raccontare un calcio ideale ambientato in un futuro utopico, come lo immagini?

 

Se vogliamo fantasticare sarebbe bello avere squadre miste con la stessa base di stipendio, dove ogni club ha lo stesso tetto massimo da spendere per comprare giocatrici e giocatori. Immaginiamo squadre con 5 uomini e 6 donne (o viceversa): proprio un mondo ideale!

 

È stato molto bello e anche complicato per me giocare in squadra con i maschi perché, quando sono diventati uomini, non riuscivo più a seguirli. Da un punto di vista fisico c’era troppa differenza. Ma il match uomo-donna non è male perché ci si completa. Giocare con i maschi mi ha fatto diventare quella che sono, sono cresciuta con la competitività e l’onestà maschile della squadra.

 

Vorrei che il calcio fosse come quello di allora – ovviamente stiamo parlando di un’utopia. Ma sarebbe bello che tutto fosse “un po’ meno”: dalle parole usate per dividere, agli eccessi delle disparità.