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Calcio: specchio e servo del mio reale

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Calcio: specchio e servo del mio reale

Con Francesco Caremani, autore del podcast “Regine una notte sola” abbiamo parlato di come il calcio racconta la società e di come questa, a sua volta, lo influenza. 

Partiamo dalle basi: in che modo il calcio è uno specchio della nostra società?


Penso sia legato alla genesi di come si è sviluppato questo sport nel mondo: è nato nei college inglesi, destinato solo a determinate classi sociali e poi si è espanso anche alle altre. In questo modo è diventato un fenomeno di rivincita e di rivalsa. Il fatto poi, che oggi sia lo sport più amato e praticato nel mondo ci dà l’idea di cosa rappresenta per milioni di persone. 


Per citare Arrigo Sacchi “Il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti”.


Oltre lo sport, c’è di più?


Le persone praticano il calcio e lo seguono, però, evidentemente, lo sport non è una cosa a sé stante – non lo è mai stato. Talvolta si sente parlare di neutralità dello sport, ma non è vero: il calcio non è mai stato neutrale, sia da un punto di vista politico che sociale.

Si è sempre cercato di imbracare i calciatori in una gabbia dorata in modo che non si esprimessero, che non prendessero una posizione ma alla fine, sono state le persone a portare nel calcio le proprie esigenze, richieste e recriminazioni.
Faccio un esempio: gli ultrà sono nati in Italia all’inizio degli anni ’70, non a caso con le rivolte giovanili. Lasciamo stare, adesso, cosa è diventato il movimento ultrà nel tempo, ma allora esprimevano una rivolta sociale che i giovani stavano portando nel calcio.


E come fenomeno politico, sociale ed economico, il calcio ha sempre seguito l’evoluzione della società: nella Germania nazista, nell’Italia fascista e anche nelle democrazie – perché nel frattempo vediamo Macron che si espone perché vuole che Mbappé rimanga al Paris Saint-Germain come se fosse un asset di politica nazionale. 


Il calcio, inoltre, ci racconta l’evoluzione della società, anche attraverso la sua estetica: le divise, i materiali utilizzati, il look dei calciatori stessi: anche questo è la rappresentazione della società che cambia.


E oggi? Cosa sta succedendo?


Nulla di particolare: il capitalismo, il turbo-capitalismo, il liberismo sfrenato che il calcio rappresenta ai massimi livelli è, ancora una volta, lo specchio della società.


I calciatori sono ormai delle icone lontanissime dalle persone, con una vita parallela rispetto alla massa che a sua volta con loro ha questo strano rapporto di amore e odio: amore quando si vince, odio quando qualcuno cambia squadra o perde.
Si dice “abbiamo vinto” ma chi vince sono i giocatori in campo. Anche queste strane dinamiche, così come gli hater sui social piuttosto che quelli che io chiamo le “truppe cammellate”, che difendono a tutti i costi i loro idoli, sono la rappresentazione statica della società di oggi. 


Il calcio ha creato un distacco con le persone. Una volta i calciatori erano più vicini ai tifosi, sia da un punto di vista economico sia fisico: li incontravano, nascevano delle amicizie. Questo oggi non esiste più. Io lo collego anche alla narrazione che si fa del calcio, perché riguarda anche la distanza tra giocatori e giornalisti, che a differenza di allora non sanno cosa accade in uno spogliatoio o in squadra.


Il calcio che racconto in “Regine una notte sola”, almeno fino agli anni ’90 era più vicino alla gente e meno “globale”, capitava che alcuni giocatori fossero addirittura nati nella stessa città della squadra per cui giocavano: il classico ragazzo della porta accanto poteva diventare un idolo. Infatti il Celtic era una squadra di scozzesi, il Magdeburgo nel ’74 a maggior ragione era formata solo da giocatori della Germania dell’Est, lo stesso Aston Villa negli anni ’80 era una squadra fondamentalmente di britannici, mentre l’Inter di Herrera già aveva degli stranieri importanti, come Peirò e Jair, ma sempre in un blocco italiano. Era un calcio fatto di riti (la domenica si gioca, il mercoledì c’è la coppa) che oggi si è trasformato da sport a intrattenimento ma soprattutto da sport a industria e che comprende anche la bolla dei diritti televisivi e degli stipendi… Neanche la pandemia gli ha fatto fare un passo indietro!


In questo momento tutti si stanno strappando i capelli sull’Arabia Saudita e qui commettiamo sempre lo stesso errore: pensare che il calcio sia solo nostro, dimenticando che negli anni ’80 e ’90 i paperoni eravamo noi, che andavamo nel mondo a cercare i giocatori più forti. La storia ci ricorda come le ricchezze si spostano e di conseguenza trasformano tutto – anche lo sport. E se in questi anni l’Europa ha trasformato il calcio da sport a industria, ora non ci si può lamentare che segua la ricchezza e quindi la possibilità di costruire campionati più forti.


Nella narrazione che incontriamo oggi nei giornali, quella che ci viene proposta più facilmente, ci stiamo anche perdendo qualcosa?


Sì, tanto che in maniera un po’ contraddittoria stanno nascendo delle rivendicazioni rispetto al calcio del popolo. Da una parte molte persone tifano ancora Juve, Real Madrid, Bayer Monaco, Paris Saint-Germain ecc. dall’altra c’è un movimento (anche con associazioni molto importanti a livello europeo) che rivendica un calcio più a misura d’uomo. E così nascono fenomeni, come in Inghilterra, dove il pubblico preferisce seguire le piccole squadre dei campionati inferiori piuttosto che le grandi squadre della Premier League. In Italia, la grande crisi economica ha fatto fallire molti club e molti cercano di rinascere anche attraverso i trust dei tifosi: c’è l’idea di essere appunto più vicini ma anche – e questa è proprio la psicologia di oggi – più protagonisti.

 

La distanza crea rivendicazioni, odio, dissapore.


Parliamo di giornalismo sportivo, a che punto siamo e dove possiamo andare?

Stiamo attraversando un cambiamento: da tifoso posso anche decidere di non seguire più il calcio del futuro se non mi piace la sua ritualità, ma da giornalista devo essere capace di raccontare quello che succede in modo contemporaneo. Un giornalista non può essere un conservatore o un reazionario, perché altrimenti racconterebbe la realtà solo attraverso i propri bias cognitivi, occorre invece avere un pensiero laico.


Da fan di Slow News  mi piace citare una loro frase: “Sulle notizie bisogna arrivare per ultimi, non per primi”. Un esempio di quanto questo assunto sia vero è il calciomercato: un momento dell’anno in cui il giornalismo sportivo raggiunge dei picchi notevoli di non-autorevolezza, con notizie al 90% non verificate che vengono amplificate dall’effetto megafono dei social. Per esempio, quando venne annunciato l’arrivo di Ronaldo alla Juventus molti non ci credevano: questo è l’effetto.


Il giornalismo oggi fa una grande fatica per diversi motivi: c’è la distanza con i grandi protagonisti, che comunicano al pubblico direttamente dai social e ci sono piattaforme come Netflix e Amazon Prime che raccontano lo sport autoproducendo la propria verità. Siamo in una fase in cui gli innovatori che cercano di fare un buon lavoro di approfondimento, come Slow News che ho già citato e Valigia Blu, per esempio, risentono dei difetti del giornalismo tradizionale che continua a inseguire più la velocità della verità.


Ma il punto è a chi ti rivolgi? Ai tifosi che vanno sui social a fare i sostenitori o gli hater? Il giornalismo, nel momento in cui abdica alla propria funzione di mediazione tra il lettore e le fonti in funzione della notizia, smette di essere giornalismo. I risultati sono poi nelle copie, nella difficoltà di creare un modello di business sostenibile, nell’autorevolezza sempre più scarsa. 


E negli ultimi trent’anni, in Italia, si è sempre più abdicato alla funzione inseguendo cose che non davano risultati, non ultima la rivoluzione digitale che non è stata studiata e cavalcata, è stata piuttosto avversata dagli editori che hanno continuato a fare politiche finanziarie piuttosto che politiche industriali: occorre investire sugli autori e sulla loro formazione, altrimenti rischi quello che sta accadendo. 


Lo dice bene Walter Quattrociocchi, studioso di big data e autore di “Polarizzazioni. Informazioni, opinioni e altri demoni nell’infosfera” : il rischio, dando questi contenuti “fast-food” in pasto ai social, è che non costruisci lettori nel futuro (pensiamo alla GenZ per esempio, che ha un modo diverso di seguire lo sport attraverso i social), stai seguendo una linea e lo stai facendo male oltretutto, perché non conosci a fondo il media che stai utilizzando.


Non voglio però commettere l’errore dell’assolutismo nei giudizi, perché ci sono nicchie cui fa comodo dire che è tutto sbagliato, buttando via il bambino con l’acqua sporca, in realtà ci sono tante realtà e tanti colleghi che ogni giorno fanno un ottimo lavoro, spesso non sono quelli più famosi e conosciuti, spesso lavorano per piattaforme che il grande pubblico non conosce o conosce meno, però ci sono. Giovani, bravi, capaci, con idee innovative che hanno realizzato progetti molto interessanti, basta avere un po’ di curiosità e andarli a cercare, non è così difficile.


Molti si lamentano del giornalismo sportivo, bene che ne cerchino di alternativi, che smettano di finanziare quello che non gli piace e abbiano il coraggio di dirigersi in mare aperto, ci sono isole fantastiche che vanno solo scoperte. Perché il paradosso, alla fine, è che proprio adesso, in questo periodo storico, serve ancora di più un buon giornalismo che ci racconti la realtà dei fatti e che ci spieghi come sta cambiando il mondo, anche nello sport. Perché se c’è una cosa che questi ultimi anni ci hanno insegnato è che il “si è sempre fatto così” non funziona, e, spoiler, non ha mai funzionato, e che le abitudini sono fatte per essere stravolte. Una volta anche la lettura dei giornali era un’abitudine, ecco bisogna ripensare il giornalismo sia dal punto di vista del giornalista che del lettore: ci vorrebbe un nuovo patto, fatto di trasparenza, correttezza e, ovviamente, competenza.