Da dove nasce questa tua passione per gli epistolari?
Ho una formazione letteraria: ho frequentato il liceo classico, poi ho studiato Lettere all’università; la letteratura è sempre stato il mio modo di affrontare il mondo. I libri sono e rimangono il mio “posto” preferito e gli epistolari, in questo panorama, sono il luogo più intimo che ho trovato nella letteratura, fatti di una scrittura “periferica” – non ufficiale – che contiene la vita di autrici e autori. A differenza di quanto sosteneva Elsa Morante che definiva “pettegolezzi” i dettagli biografici – tanto da depistare i giornalisti con risposte contraddittorie quando le ponevano domande personali – e sosteneva che nulla avessero a che fare con la letteratura, io credo che questi epistolari siano essi stessi letteratura, anzi, che siano un modo per accedere alla letteratura ufficiale dei libri – degli autori – da una porta privilegiata. Un modo per conoscere l’umanità di queste persone che hanno la capacità di raccontare un dettaglio, un fatto privatissimo, un dente cariato, e con quel particolare arrivare all’universalità – a noi e a tutti i nostri denti cariati. Questa è la potenza degli epistolari. E in generale di chi scrive non per vanità ma per generosità, insomma, per darsi agli altri.
Cosa hai voluto comunicare con “Corrispondenze”?
Innanzitutto c’è un desiderio personale, perché scrivere di questi autori – di questi amori – è per me un modo per imparare ad amare meglio le persone della mia vita. Sembra retorico ma è così: leggere queste storie che sono intime e allo stesso tempo universali, è un modo per portare nella propria collezione interiore dei fatti, delle informazioni, che ci fanno muovere meglio nel mondo.
Molto spesso la letteratura sembra qualcosa di inaccessibile, di scolastico o elitario, riservato a chi si è già posizionato in quel mondo, ma non è così: queste storie possono parlare a tutti, anche a chi non ha nessun pedigree.
L’epistolario è un lavoro intimo, che parte dalla parola scritta ed è indirizzato a una persona, in “Corrispondenze” diventa un podcast: un lavoro corale al quale hanno partecipato anche altri professionisti e professioniste che l’hanno interpretato a modo loro. Com’è stata questa esperienza di trasformazione?
Prima di tutto il podcast, che ho conosciuto in modo più grazie a Gaia Passamonti di Storie avvolgibili, è uno strumento potentissimo per raccontare storie complesse. Sappiamo quanto oggi l’attenzione sia frammentata; avere 20 minuti di ascolto continuo da parte di una persona è un’occasione rarissima. Per raccontare opere come gli epistolari, che hanno bisogno di una predisposizione dell’animo particolare, forse il podcast è l’unico strumento in cui questo tipo di narrazione intima trova lo spazio che si merita: attento, delicato, riflessivo.
Poi, per rispondere alla tua domanda, sì, “Corrispondenze” ha trasformato queste lettere in un lavoro corale. Con le musiche di Veronica Marchi è stato un continuo accordarsi all’andatura delle storie, e il brano finale che lei ha riservato a questa produzione ha donato ulteriore valore. È come quando un autore legge un libro e aggiunge qualcosa di suo alla storia. In un certo senso attraverso la musica, Veronica ha aggiunto la sua voce, profonda e bellissima, alle altre. E poi anche Diego Alverà con la sua esperienza mi ha aiutata a stare con la voce nelle parole che ho scritto. E credo che ascoltando il podcast si percepisca che è il risultato del lavoro di più persone che si sono innamorate di un progetto.
E non finisce qui, perché c’è anche la sua versione live!
Sì, il 17 febbraio, in occasione del Premio Cara Giulietta organizzato dal Club di Giulietta, abbiamo portato sul palco del Teatro Nuovo di Verona una puntata della serie, quella dedicata all’amore di Cesare Pavese e Bianca Garufi. La musica di Veronica, il racconto per immagini confezionato da Diego e l’amore di Cesare e Bianca. Uno spettacolo poetico che non vediamo l’ora di replicare.
Nel tuo lavoro ci sono autori o autrici che ti hanno ispirata?
Sono una giornalista, ho lavorato per anni nel mondo del giornalismo di cronaca e mi sono innamorata di un tipo di giornalismo totalmente diverso, quello narrativo, che in Italia è molto poco praticato. Un approccio che si muove sul confine con la letteratura perché non indaga solo il fatto in sé ma anche tutto il paesaggio che lo circonda, per esempio Emmanuel Carrère ha fatto un lavoro memorabile con “V13” che parla del processo agli autori dell’attentato al Bataclan. Il libro è incredibile e dolorosissimo: non si tratta di cronache sebbene sia tratto dagli articoli che lui stesso ha scritto per i giornali durante il processo. Ogni volta prende un personaggio e dalla sua storia riesce a tratteggiare tutto il paesaggio che gli sta attorno, per cui tu non ti puoi più dimenticare di queste persone, gli attentatori, che erano dei ragazzi in tuta che si guardavano le scarpe da ginnastica mentre venivano elencati i loro crimini, mentre una platea gigantesca di parenti delle vittime li osservava. Ecco, questo è l’unico giornalismo che mi interessa e che voglio fare. Tantissimi spunti per me arrivano da questo mondo, come anche il lavoro di Leila Guerriero, giornalista argentina autrice di “Suicidi in capo al mondo”, o quello di Annalena Benini che stimo molto per come racconta le cose, e Sandra Petrignani che ha un modo di scrivere stupendo partendo dalle biografie delle persone – un approccio con cui sento di avere molta attinenza perché le vite degli altri raccontano tantissime cose che ci aiutano a vivere in maniera più sensata.
Poi è innegabile il mio amore sconfinato per Cesare Pavese… Ricordo il giorno in cui ho comprato “Il mestiere di vivere” a una bancarella: avevo 15 o 16 anni, e per la prima volta leggevo i frammenti del suo diario esistenziale. Questo è stato il mio ingresso nel mondo della scrittura periferica.
Usiamo l’immaginazione: quale epistolario ti piacerebbe leggere?
Mi piacerebbe leggere uno scambio tra Albert Camus e sua figlia, Catherine Camus: colei che ha raccolto il carteggio del padre con l’amante per darlo alle stampe e curarlo. Mi piacerebbe poi leggere scambi tra madri e figli, sempre nell’ambito della letteratura ovviamente; per esempio Giorgio Manganelli o Emilio Gadda hanno avuto rapporti devastanti con le madri, spesso le odiavano. Manganelli addirittura ha iniziato a scrivere solo dopo la morte della madre – prima non riusciva a pubblicare. Li vorrei leggere per essere una madre migliore, perché la letteratura la adopero così, come bussola nel complicatissimo mestiere di vivere.
Smetteremo di scrivere lettere? O abbiamo bisogno che questa abitudine sopravviva?
Spesso si scrive una lettera o un biglietto per rendere corporea un’emozione. Anche nei carteggi di “Corrispondenze” c’è questo bisogno di afferrare l’immediatezza di quello che si sente. I carteggi sono un’incredibile educazione emotiva in cui emerge sia quello che nelle relazioni è sbagliato e storto, sia tutto ciò che ci salva.